Tre Donne: esplorazione nelle vite di tre personalità come Anna Achmatova, Alda Merini, Antonia Pozzi
Oggi vi proponiamo un ampio articolo tratto dal Corriere di Siena a firma di Silvio Ciappi che fa un analisi molto dettagliata sul libro Tre Donne di Francesco Ricci.

Tre donne , l’ultimo libro di Francesco Ricci (Nuova immagine editrice, Siena, pp. 110, euro 12), possiede un grande pregio. Attraverso il dipanarsi delle vite di Anna Achmatova, Alda Merini, AntoniaPozzi, noi non abbiamo a che fare solo con un saggio di critica letteraria; piuttosto, noi siamo condotti ad addentrarci nello scrigno segreto di tre apparati dell’Io. Queste tre donne, questi tre fiati di vocali, infatti, rappresentano anche tre moti dell’animo. Rimandano a quello che più di un centinaio di anni fa, nella sua casa di Vienna, un giovane neurologo, amante anche dell’ archeologia e delle lettere, Sigmund Freud, identificava con Io, Super io ed Es. Tre istanze che, tradotte in linguaggio quotidiano, echeggiano tre logiche, quella della Realtà, quella del Dovere e quella del Piacere. Come sappiamo, le nostre esistenze si svolgono proprio a partire da qui, da questo equilibrio, mai perfettamente stabile, tra tre mondi diversi, che comunicano incessantemente tra loro: ovvero, ciò che è, ciò che dovrebbe essere, ciò che ci piacerebbe che fosse. E mentre leggiamo di Anna, di Alda, di Antonia, di colpo ci scopriamo a osservare noi stessi, quasi che una mano invisibile avesse capovolto lenti e rovesciato prospettive. In sostanza, il fine che Ricci persegue è spingerci, attraverso la strambalogica dell’amore (la più ineffabile, chimica, surrettizia forma di comunicazione tra persone), a interrogarci su quale sia stato o su cosa rappresenti attualmente, per noi, l’altro; cosa significhi vivere quell’incessante flusso di attimi che ci attraversa e che ci rende amici sospetti del tempo; cosa voglia dire innamorarsi e perdere l’amore, cosa rappresenti morire per la mancanza d’amore e financo impazzire, uccidere e uccidersi, a causa di un sentimento che rende folli, furiosi, ebbri della presenza dell’altro, di una passione che è linfa vitale e che trascina sempre al di là di noi stessi. Ecco perché “Tre donne” mi viene da accostarlo a uno specchio, ecco perché lo interpreto come una possibilità data al lettore di mettersi a nudo come persona, ecco perché, infine, lo leggo come un’affascinante rivalutazione del peso imponderabile della parola vissuta, non orpello, non trina o gala, ma cappotto e sottomaglia di lana da indossare durante il rigido inverno.
Ricci, che conosce come pochi le diverse maniere attraverso cui le parole riescono, come un cavallo impazzito, a farci volare via, a farci percorrere sentieri inesplorati, testimonia una volta di più, con questo libro, il suo impegno civile nel renderci le parole familiari: il suo non è un vacuo esercizio di stile, il suo è una sorta di addestramento militare, diremo anche rivoluzionario. Ricci ci porta a maneggiare le bombe inesplose delle parole, a pensare alla loro carica eversiva. Chi, come me, fa del suo lavoro un esercizio critico testuale delle parole attraverso le quali si snoda la vita delle persone (ebbene si malgrè tout faccio lo psicoterapeuta), non può che salutare con piacere e gratitudine un libro come “Tre donne”, non può che gioire del fatto che la letteratura, e le vite deragliate dei poeti – con le loro parole – ritornino a vivere nella polis, a non essere più ingessate nei manuali, nei musei delle cere della letteratura ufficiale. Se c’è una cultura, infatti, questa non può che essere fiore che cresce, erba che si avviluppa, movimento di vita che si accresce. Nelle esistenze di Anna, di Alda, di Antonia, riscopriamo parti di noi, al punto che non esiterei a definire Tre donne una sorta di esteso midrash, dove a campeggiare sono la vita, la follia, l’amore di tutti noi e, dunque, quella unicità (non è un caso che i nomi delle tre donne inizino con la stessa lettera dell’alfabeto), quella origine, dalla quale tutto sgorga. Lo sapeva bene Saffo, ampiamente citata nel libro, che una volta ha scritto: “Venite al tempio sacro delle vergini/ dove più grato è il bosco e sulle are/fuma l’incenso./Qui fresca l’acqua mormora tra i rami/ dei meli: il luogo è all’ombra di roseti,/dallo stormire delle foglie nasce/profonda quiete./Qui il prato ove meriggiano i cavalli/è tutto fiori della primavera/e gli aneti vi odorano soavi./E qui con impeto, dominatrice,/versa Afrodite nelle tazze d’oro/chiaro vino celeste con la gioia”. Lo sa bene ogni poeta (e ogni critico) che conosce le strade impervie della poesia (e anche della follia), sa bene che essa è quel luogo dove meriggiano i cavalli, dove gli animali arrestano per un attimo la corsa, dove il respiro si fa forte e si condensa, dove i muscoli si fermano prima che il verso faccia sdrucciolare via parole e le faccia ringhiare fuori dalla penna, costringendole a impennarsi tra i sentieri dell’anima.
Ah, le parole, i sentieri e i cavalli. Strana roba, come un suono, come un verso, comela vita.