A Siena e dintorni sono tante le iniziative organizzate per non dimenticare gli orrori nazisti, noi vogliamo ricordare la senese Alba Valech Capozzi e il suo libro A-24029, nel quale racconta la sua deportazione ad Auschwitz.
Alba Valech Capozzi nacque a Siena il 9 maggio 2016. Fu arrestata il 5 aprile del 1944 a Milano, da alcuni tedeschi perché ebrea. Fu detenuta nel carcere di Milano e successivamente nel campo di transito di Fossoli. Il 2 agosto del 1944 fu deportata da Verona ad Auschwitz e marchiata con il numero di matricola A-24029. Miracolosamente sopravvissuta al campo di concentramento fu liberata dagli americani il 1 maggio 1945 nel circondario di Dachau, unica e sola superstite della sua famiglia composta da padre madre e 4 figli.
A-24029 è uno dei primissimi libri di testimonianza su Auschwitz usciti in Italia, e in generale sulla tragedia della deportazione degli ebrei italiani. Un libro scritto a pochi mesi dalla fine del conflitto mondiale, scritto di getto, da una donna dotata di una grandissima sensibilità e di una spiccata quanto rara forza narratrice. Un volume di memoria che merita senza dubbio alcuno un posto di assoluto rilievo nel mondo della letteratura sulla deportazione.
A-24029 di Alba Valech Capozzi è un libro che è stato stampato in pochi esemplari a Siena nel 1995 (per maggiori informazioni contattate l’editore o cliccare qui), in occasione del cinquantesimo anniversario della Liberazione, curato dall’Istituto Storico della Resistenza Senese.
Vi mostriamo la prefazione di A-24029 di Alba Valech Capozzi a cura del Dott. Antonia Minasi:
Credo che poche persone potrebbero leggere certe pagine del racconto della Valech Capozzi, senza sentire la propria anima arricchirsi di un dolore vasto e purificatore e senza sentirsi strappare interamente alla cerchia limitata della propria individualità e premute, sino allo spasimo, alla giuntura che le innesta al grande, martoriato corpo della umanità.
Ora, io dico, non è questo il massimo effetto che può operare la poesia? La Signora Alba Valech Capozzi prima della tragedia che ebbe a vivere non nutrì mai ambizioni letterarie, a quanto Ella stessa afferma. E nulla, a vero dire, nel suo racconto v’è di letterario, in quanto questa parola può significare di meditato proposito emotivo ed artificio. Il dolore ha aperto in Lei, meravigliosamente, una fonte di poesia, di quella poesia pura, vergine, fatta di anima e di offerta, che a mio parere è la sola, la vera poesia, che può essere talvolta senz’arte, ma senza la quale l’arte non è; quella poesia che è un messaggio, un appello incontenibile dell’uomo all’uomo, un dono pieno di un fascino insondabile che ogni cuore onesto accoglie con reverente riconoscenza, conscio del conforto unico, che esso gli arreca.
Chi interroghi la Valech Capozzi sui motivi che l’hanno in dotta a scrivere, si sentirà rispondere candidamente che, al suo ritorno dalla Terra della Morte, ella sentiva in sé un’urgenza smaniosa, quasi una forza esteriore la comandasse e che non le lasciò pace finché non posò definitivamente la penna.
E l’empito poetico che è senso impellente di una bellezza misteriosa, scaturente dalla gioia o dal dolore, da comunicare generosamente quando è così intenso trova sempre, io credo, le forme di un’arte originale, di suggestiva potenza. Se quanti si sforzano di manipolare astruse formule e concetti mirabolanti sull’arte, si rendessero conto di questa verità, non assisteremmo forse a tante pietose mostre di vanità, di egotismo e di avida ambizione cerebrale. Non sono fuor di tema. Questo è il pensiero che coglie chi legge il racconto della Valech Capozzi. Siamo indubbiamente davanti ad un’opera di poesia e di arte. Un’arte, diremo, non coltivata, un’arte sommessa, desolata, scarna, sostanziata di lacrime, di abbandono e d’innocenza, un’arte la quale nasce dalla estrema semplicità del linguaggio, dalla meravigliosa ed istintiva sapienza, che quasi mai vien meno, di evitare tutto ciò che abbia significato puramente personale, autobiografico, per mettere in evidenza solo quanto abbia un valore universale.
Sicché noi leggiamo sì, la pietosa vicenda, in sé commoventissima, della signora Valech Capozzi, di questa mite, gentile piccola donna innamorata, divenuta preda indifesa da un odio assurdo ed immane, ma leggiamo anche e soprattutto l’agonia di milioni di creature come lei strappate alla propria terra, alla propria casa, orbate dei propri affetti, e leggiamo soprattutto la storia, antica e recente, della debolezza e della innocenza straziate, ed udiamo – rabbrividendo – quel grido divino che chiama Giustizia ed Amore, per l’appello insistente del quale l’Umanità procede verso la propria perfezione.
L’autrice, anziché una narrazione continuata, ha – con felicissimo intuito – preferito una forma episodica. Ogni capitolo è un piccolo quadro; e se adopero il vocabolo “quadro” intendo il termine nel significato proprio. Rammento certe tele, specialmente proprie alla pittura moderna, in cui la povertà dei toni smorzati, freddi, grigi, ambientano chi le contempla in un paesaggio di squallori, di nudità, in cui insiste, anche se invisibile, la patetica solitudine angosciata dell’uomo.
La stremata esilità del periodo, certe affaticate asperità della forma, certe ripetizioni monotone, ostinate, simili ad un lamento incoerente, balbettato nella febbre, ripetono, con stupefacente evidenza lo smarrimento, l’orrore e la solitudine dell’abisso che la scrittrice ebbe a sperimentare, e realizzano, naturalmente, quelle aspirazioni di cui la prosa moderna si fa vanto e vessillo: l’assenza di accademia in pro di una semplicità essenziale, il raggiungimento degli effetti più suggestivi con lo impiego dei minimi mezzi, l’eloquenza sommessa e dimessa che sgorga da fatti e cose, più che da parole, e la fresca ingenuità ed immediatezza delle sensazioni e dei sentimenti. Tutte doti che invero si dovrebbero specialmente, se non solamente, apprezzare là dove sono spontanee.
E voglio, concludendo, dire una parola d’affetto alla Signora Valech Capozzi che, dopo cosi grande sventura, ha conservato nel suo animo tanta simpatia e tanta fede nell’umanità, da volere farci dono della propria sofferenza. E che altro è l’opera di poesia, se non dono d’amore alla Umanità?